Fuoco dagli Inferi
Buio. Oscurità. Tenebre immote, più scure dell’inchiostro e dalla consistenza quasi solida. Al centro di esse nel silenzio assoluto una volontà fortissima, dura come l’adamantio e soprattutto malvagia al di là di ogni immaginazione attendeva nel suo lungo sonno popolato di caos e distruzione. Fuoco, carneficine e massacri, al centro dei suoi pensieri. Ormai da troppo tempo solo ricordi lontani, risalenti al tempo in cui era adorato come divinità e gli umani gli pagavano un tributo di oro e sangue, offrendo in sacrificio i giovani più coraggiosi e le fanciulle di nobile stirpe pur di placare la sua furia. Invece adesso a cosa era ridotto? Un cane da guardia, uno spauracchio per entità che in altre circostanze si sarebbero rivolte a lui con rispetto e timore reverenziale… certo adesso il suo fuoco bruciava di più delle fiamme stesse degli Inferi, più del ghiaccio di Cania, ma il prezzo da pagare era stato molto alto. Non aveva avuto scelta, e questa considerazione lo riempiva d’ira. Decise di colpo che anche stavolta non si sarebbe recato a Mephistar per l’Adunanza, a meno che non vi fosse stato costretto dai legami invisibili ma saldissimi con i quali il suo Signore lo teneva avvinto.
Luce. Acqua. Ancora luce, ma distorta, di una diversa natura. In circostanze normali in quegli elementi Raphel avrebbe dovuto trovarsi a suo agio, ma la sua Luce era attaccata da ogni parte da un’altra altrettanto accecante ma malata, malsana, che tentava di contaminarlo e lo faceva soffrire. E questa tortura andava avanti da troppo tempo. Ma a dispetto del dolore costante e della cattività la sua mente era lucida: ricordava ogni particolare della lotta, il momento in cui le preghiere degli umani avevano indotto il suo Signore a dargli forma fisica per scongiurare un grande male, la strana sensazione di trovarsi, lui puro spirito, costretto nei confini deboli e limitati di un corpo fisico nel piano materiale, e quindi nonostante tutta la sua possanza pur sempre vulnerabile. Il momento in cui dopo infine con la sua spada lucente aveva sconfitto il grande drago costringendolo alla resa e quello in cui lo aveva risparmiato facendosi ingannare e condurre agli Inferi, dove infine era caduto circondato da poteri soverchianti ed era stato fatto prigioniero. Quando aveva ripreso conoscenza aveva scoperto di essere incatenato in quel pozzo, e quando era emerso si era trovato al cospetto del Signore di Cania, che gli aveva dato il benvenuto nel suo regno comunicandogli con modi urbani e voce affettata che sarebbe rimasto suo ospite gradito per l’eternità. Raphel si era avventato contro l’Arcidiavolo, dispiegando le ali, stringendo i pugni e tendendo verso il cielo le sue possenti braccia nerborute, ma il complicato intrico di glifi metallici disegnato sulla sommità della pedana ottagonale si era illuminato come fuoco e le catene avevano retto, respingendolo sott’acqua fino in fondo al pozzo. Da allora aveva provato più volte a liberarsi, ripetendo il tentativo a intervalli regolari quando gli tornavano forze sufficienti, urlando con la sua voce stentorea, ma l’esito era stato sempre identico e ogni volta era stato ricacciato sul fondo dove lo attendeva una fiamma che ardeva emanando una luce ben diversa dalla sua, una luce sacrilega. Soffrì, e si preparò attendendo il momento in cui avrebbe avuto di nuovo le energie indispensabili per l’ennesimo slancio.
Il grande pozzo che occupava quasi tutta l’ampia sala di marmo bianco venato di verde era colmo fino all’orlo, e l’acqua sfiorava le pedane abilmente scolpite con figure aliene che lo circondavano. Lungo tutto il perimetro ottagonale correvano filamenti composti da vari metalli, a formare rune e glifi che anche gli incantatori più esperti avrebbero esitato a comprendere. Il portale d’oro, unico accesso alla stanza, si spalancò di botto con fragore e otto figure trafelate e sanguinanti si precipitarono ansimando all’interno, provocando echi rimbombanti con il calpestio dei loro stivali di pelle dalle suole chiodate. Si guardarono intorno con circospezione eppure ancora confusi: evidentemente nella stanza si aspettavano di trovare ben altro. Uno di loro, interamente rivestito di ferro, si issò non senza sforzo sulla pedana, provocando i cigolii lamentosi della sua armatura completa ammaccata in più punti istoriata con l’emblema del Dio. Gli altri lo imitarono uno dopo l’altro, con passo più o meno silenzioso, finché non si trovarono a esaminare la cisterna dalla sommità. Due avventurieri equipaggiati in maniera leggera si inchinarono dedicando il tempo necessario a esaminare i glifi mentre gli altri passeggiavano nervosamente gettando occhiate preoccupate qua e là o attendevano il loro turno per usufruire della sapienza curativa del sacerdote: infine si radunarono confabulando per confrontare le loro opinioni e decidere la migliore linea d’azione. In quel momento lo sguardo dell’uomo barbuto vestito di una lunga tonaca marrone fu attirato dalle acque limpide della pozza stagnante, dove al centro, in profondità, si muovevano ombre e una strana luce dorata: al di sotto di essa un bagliore che, se solo fosse stato possibile, si sarebbe detto di fuoco, ma di fuoco malato, contaminato dall’oscurità. Nei suoi boschi non aveva mai visto niente del genere: ma del resto nel luogo dove si trovava adesso tutto era sbagliato e la natura come lui era abituato a conoscere non esisteva. “Là sotto c’è qualcosa” fece appena in tempo a gridare, quando la luce dorata iniziò a salire verso di loro, facendosi sempre più ampia e luminosa. Le rune che avevano appena esaminato presero a brillare sempre più vividamente fino a ferire gli occhi e l’acqua fino ad allora immota iniziò a brillare e ribollire finché esplose in una miriade di goccioline: gli otto videro torreggiare sopra di loro una creatura che con voce potente gridò verso il cielo parole in una lingua incomprensibile. L’essere era alto circa tre metri, massiccio e imponente, e si sarebbe potuto scambiare per un umano se non fosse stato per la mole, la carnagione dorata e l’imponente paio di ali bianche che spuntavano dalle scapole. Gonfiò i bicipiti nello sforzo immane di infrangere le catene che gli serravano polsi e caviglie, i lineamenti belli e fini distorti dalla concentrazione e da qualcosa che poteva sembrare frustrazione. Dopo interminabili secondi, non avendo ottenuto alcun risultato, rilassò i muscoli e percorse la stanza con i brillanti occhi color topazio senza però dare a vedere di aver notato gli otto, nonostante lo sguardo indagatore e intelligente si fosse posato anche su di loro: infine esausto e rassegnato si lasciò cadere sotto la superficie del pozzo. Gli otto, pur stupiti per lo spettacolo inatteso, in cuor loro esultarono. Anche in un luogo consacrato alla doppiezza e all’inganno come quello in cui si trovavano non ci potevano essere dubbi: avevano trovato colui che stavano cercando.
Testaroun stava per ripiombare nel suo sonno secolare quando all’improvviso “sentì” che qualcosa era avvenuto, qualcosa di inconcepibile che lo riportò in un attimo allo stato vigile. Un lampo carminio balenò nell’oscurità silenziosa quando aprì il suo occhio sinistro, illuminando lo spazio enorme della caverna. Il suo immenso corpo da rettile si inarcò innalzandosi sulle possenti zampe posteriori e l’attimo successivo già dispiegava le gigantesche ali membranose e si alzava in volo nel cielo tempestoso della desolazione ghiacciata chiamata Cania. In quel momento seppe che il suo nemico era stato definitivamente liberato, lo seppe perché a lui era legato indissolubilmente con gli stessi lacci incantati dal giorno in cui era stato ingannato, e quindi era libero a sua volta. Non aveva dubbi che la stupidità congenita tipica della disgustosa stirpe angelica avrebbe spinto il Solar allo scontro immediato: senza dubbio sarebbe venuto a cercarlo! Certo una volta era stato sconfitto, e alla fine aveva avuto ragione del suo avversario solo grazie alla sua debolezza d’animo e all’aiuto di Tiamat, ma adesso era ancor più potente, il nemico indebolito dalla lunga prigionia, dagli incantesimi del suo Signore e dalla lontananza estrema dalla sua Fonte di potere: lo avrebbe fatto a pezzi e si sarebbe nutrito della sua Essenza per poi riprendersi quello che gli era stato tolto. Il dragone ruggì di gioia come non aveva fatto da molto, molto tempo, e la tempesta di fuoco ardente che infuriava dalle sue fauci si abbatté sull’intero fianco della montagna, distruggendolo: questo era un bel giorno, il sangue mistico di Raphel sarebbe stato il primo mattone su cui porre le basi per un nuovo Regno del Fuoco!